"Della 'Merica si parlava come una terra ostile che cancellava gli affetti…"

 

Mia cara Angela, amata sorella. Sono in America. Ci son voluti trenta giorni di navigazione per arrivare fino a qui. Non mi sono ancora sistemato. Ma sto bene.

 

Il racconto di Giovanna Tangorra…

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Estratto dalla Biografia Made In U.S.A.

 

 

Cari figli miei, stamattina mi son svegliata presto come mio solito. Ho messo i piedi a terra e, prima di aprire gli scuri delle porte finestre, ho guardato dentro il cassetto del mio comodino. Nel cassetto ho trovato delle lettere di mio zio Simone Sardone, lettere che lui ha scritto alla mia mamma Angela Sardone (sua sorella) dall’America.

È giunto il momento che io vi parli della storia della mia famiglia: che è anche la vostra.

 

Lo zio Simone partì per la “Merica", è così che la chiamavano, per aiutare la mia mamma, che era rimasta vedova e con noi quattro figli da sfamare. Mio padre Raffaele  Tangorra era fabbro, faceva i bracieri di ottone. Una sera, come tante, era nel suo laboratorio, stava ultimando delle commesse che avrebbe dovuto consegnare il giorno appresso. Batteva il ferro e faceva molto caldo in quella stanza. Mia madre mi raccontò che quella sera c’era un temporale e dalla finestra vedeva i lampi squarciare il cielo. Quando mio padre finì di battere quel metallo così duro, sentì un lamento di un cane. Senza neanche pensarci su, lasciò quel ferro arroventato dentro l’acqua fumante e uscì sotto il temporale per aiutare quel cagnolino rimasto isolato tra le pozzanghere. Morì dopo sette giorni di bronco-polmonite. A quei tempi non c’era la penicillina. Fu un grande dolore per tutta la famiglia. Vostro nonno Raffaele aveva quarantasei anni. La mia mamma mi raccontò di aver sofferto molto, ma per i suoi figli ebbe la forza di andare avanti e in poco tempo riuscì a trovare un lavoretto in un pastificio. La proprietaria del negozio le permetteva di portare noi bambini al laboratorio di tanto in tanto e le regalava il pane e un po’ di dolcetti al sabato, e vi posso assicurare che al tempo era una ricchezza. I fratelli di nonna la aiutavano a tirare avanti. Loro lavoravano la terra. Si sopravviveva e la fame si faceva sentire. La sera, davanti al camino acceso, si parlava della “Merica” e di quelli che erano già partiti. Della “Merica” si parlava come una terra ostile che cancellava gli affetti, che non dava più notizie dei paesani. E qualche volta a rincarare la dose ci si mettevano anche i racconti del terrore della vicina di casa che aveva sentito dire…:

 

[…] Era una notte scura e  faceva spavento. Stavano, con le loro valigie di cartone e i loro fagotti, su un tratto di spiaggia pietrosa, riparata da colline, tra Gela e Licata; vi erano arrivati al tramonto, ed erano partiti all’alba dai loro paesi; paesi interni, lontani dal mare. E spaventava il pensiero di doverlo attraversare tutto, da quella deserta spiaggia della Sicilia, di notte, ad un’altra deserta spiaggia dell’America. Perché i patti erano quelli. Di notte ci si imbarcava… e di notte si sbarcava: su una spiaggia a due passi da Nuovaiorche...

E avrebbero passato il mare, quel grande mare oscuro; e sarebbero approdati all’affetto dei loro fratelli, zii, nipoti, cugini, alle calde ricche e abbondanti case.  Duecentocinquantamila lire: metà alla partenza, metà all’arrivo. Avevano venduto tutto quello che avevano da vendere, per racimolarle: la casa, il mulo, l’asino, le  provviste dell’annata. Il viaggio durò meno del previsto: undici notti, quella della partenza compresa. Ma all’undicesima notte il comandante li chiamò in coperta: si trovarono di fronte paesi, paesi della ricca America che come gioielli brillavano nella notte. E la notte stessa era un incanto.

“Ecco l’America. Liquidiamo il conto. Preparate le vostre cose”, disse il comandante dopo avere incassato. Gli ci vollero pochi minuti. Scesero dalla barca leggeri leggeri, ridendo e canticchiando; e uno si mise a cantare a gola aperta, appena la barca si mosse.

Rimasero seduti sulla fresca sabbia, indecisi, senza saper che fare, benedicendo e maledicendo la notte. Il comandante aveva raccomandato – sparpagliatevi – ma nessuno se la sentiva di dividersi dagli altri. Sentirono, lontano e irreale, un canto. “Sembra un carrettiere nostro”, pensarono.

Due di loro decisero di andare in avanscoperta. Camminarono in direzione della luce che il paese più vicino riverberava nel cielo. Trovarono quasi subito la strada: asfaltata, ben tenuta. “Qui è diverso che da noi”, disse uno di loro. Ma per la verità se l’aspettavano più ampia, più dritta. Se ne tennero fuori, ad evitare incontri: la seguivano camminando tra gli alberi. Ed ecco che finalmente c’erano le frecce. Guardarono avanti e indietro, entrarono nella strada, si avvicinarono a leggere:  Santa Croce Camerina - Scoglitti.

Il silenzio dilagò.

“Mi sto ricordando…”, disse dopo un momento quello cui il nome di Santa Croce non suonava nuovo…, “a Santa Croce Camerina, un’annata che dalle nostre parti andò male, mio padre ci venne per la mietitura.”

Si buttarono come schiantati sull’orlo della cunetta perché non c’era fretta di portare agli altri la notizia che erano sbarcati in Sicilia.

(Leonardo Sciascia, Il mare colore del vino, Einaudi)

 

Zio Simone, il fratello di nonna, non si fece impressionare da quelle storie e un giorno ci lasciò tutti a bocca aperta quando ci comunicò che sarebbe partito per la “Merica” e disse: - Questo è il biglietto della nave per la “Merica”. Questo per il treno da Novaiorca a Pittigurgo… Pintiburgo o come cappero si chiama. Questo è il contratto per il lavoro alla miniera. Me lo ha procurato lo zio di un mio amico che già ci lavora e manda dei bei soldi a casa.

Poi, ci fece vedere il denaro. Trenta lire di monete d’argento con i cavalli. Si era dannato per metterli da parte, a giornata per quattordici soldi. La nonna Angela scappò nella sua camera e tornò con undici lire e le aggiunse al mucchio, e così fecero anche gli altri fratelli e i vostri bisnonni. Avevamo le lacrime agli occhi, ma non osammo dire una sola parola perché zio Simone era risoluto, deciso.

Da qui inizia la sua avventura, che sarà anche la mia e la vostra per certi versi. Vi leggerò le lettere di zio Simone che ho sotto gli occhi, dove ho imparato tanto di quegli anni.

 

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