"In genere è sempre l'ultima chiave

del mazzo ad aprire la porta".

 

È la filosofia di vita di Antonio Carnemolla, un gentleman busker di Marina di Ragusa che vive e lavora a Padova.

Questa biografia parla della sua passione per la giocoleria, il cinema, i libri e di come Airin, Guglielmo e Carmelo siano stati importanti per la sua vita e la sua crescita personale e professionale.

 

Il mio Charlie

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Estratto dalla Biografia di Antonio Carnemolla

L’arte nasce nella strada.

 

 

Era l’estate del 1997 quando arrivarono a Marina di Ragusa: gli artisti girovaghi.

Essendo il mio paese un paese di mare, l’estate oltre ai turisti arrivavano queste carovane di ragazzi per fare spettacolo. Io ero rimasto incantato nel vederli e mi prese la passione personale per la: giocoleria.

Iniziai a frequentarli, tanto che mi insegnarono i primi rudimenti di quell’arte che oggi è diventata: la mia vita.

Tutto iniziò come un gioco. Chiedevo informazioni; mi affascinavano e mi colpivano quei personaggi. Ero incantato dalla loro vita e dai loro attrezzi del mestiere.

Uno di quegli artisti attirò subito la mia attenzione.

 

Quel giovane mi corse incontro e svoltò, a pochi metri da me, a novanta gradi su un piede solo.

Io gli urlai, forse più per il pericolo scampato, chiamandolo: «Charlie.».

Lui fermò la sua folle corsa, come se avesse avuto una folgorazione, e mi disse: «Come mi hai chiamato?».

«Quel numero da circo lo faceva il grande Charlie Chaplin.».

Lui mi corse incontro e mi abbracciò, come se mi conoscesse da anni, e subito entrammo in sintonia.

Dopo l’abbraccio notai un cagnolino che scodinzolava vicino ai miei piedi e a quelli  del mio Charlie, lo soprannominai così quel ragazzo perché non gli chiesi mai il suo vero nome né lui me lo disse, e gli chiesi di chi fosse il cane.

«È mio. Si chiama Hannah.».

«Hannah Hill? Come la mamma di Charlie Chaplin?», risposi.

Con gli occhi mi fece capire che dovevo seguirlo, quelle poche parole che pronunciai furono la chiave per aprire la porta della sua vita. Mi portò nella sua roulotte e passai con lui un intero pomeriggio, e quello che scoprii mi: illuminò.

In un baule di legno scuro teneva tutto un armamentario, la copia perfetta dell’abbigliamento di Chaplin: dai calzoni informi alle scarpe di tre numeri più grandi del suo piede, dal bastone alla bombetta, dalla giacca attillata ai baffetti neri. Ad un tratto la sua pantomima si interruppe e con voce malinconica disse: «Era un uomo multiforme, un vagabondo, un gentiluomo, un poeta, un sognatore, un uomo solitario sempre in cerca di nuove avventure.».

«Mio padre è un grande appassionato di Chaplin, quando c’è un suo film in televisione ci richiama tutti all’ordine. Ci dice di lasciare stare tutte le faccende, i compiti, i giochi, per sederci ai suoi piedi e ammirare il maestro. Mio padre in macchina tiene le cassette registrate delle musiche dei film, e ci fischia sopra. Quando ci porta a scuola ci fa sentire le cassette. È troppo divertente. Lo hai visto “Il circo?”».

I suoi occhi risposero di sì, e io continuai a parlare: «La scena di quei poliziotti che lo inseguono nel luna park, e lui che si rifugia nel labirinto degli specchi, è la mia preferita.».

Il mio Charlie iniziò la pantomima del vero Chaplin.

«Sei uguale? Ma come fai? Fai l’automa come Chaplin. Usciamo fuori da ‘sta roulotte?».

Quando fummo all’aria aperta il mio Charlie iniziò a correre, e io feci finta di essere il poliziotto che lo inseguiva. Come nel film andammo a disturbare una coppia di ragazzi che stavano preparando il loro numero per la sera. Il mio Charlie si mise a girargli intorno, disturbando le prove dei due ragazzi e, intanto che girava, ridevamo tutti per quella scenetta improvvisata.

«Omino buffo. Omino buffo», intervenne a un tratto un altro ragazzo. «Ti ingaggio per lo spettacolo, sei un clown nato.».

«Chiudiamolo nella gabbia del leone», urlai. «Ce le avete le bestie feroci, vero?».

«Sì portiamolo nelle cucce dei cani», dissero i tre ragazzi in coro.

«In quella scena Chaplin fu un maestro, la paura che si leggeva nei suoi occhi pareva vera», dissi.

«Vera era», rispose uno dei ragazzi facendomi il verso. «Non c’era trucco. Vera era la paura per il leone. Chaplin era il maestro della pericolosa arte dello slapstick.».

 

Il sole stava tramontando e il mio Charlie iniziò a parlare di Chaplin: sapeva tutto di lui.

«Chaplin imparò l’arte mimica da sua madre Hannah. Lei stava tutto il giorno davanti alla finestra imitando i passanti che camminavano per la strada. Faceva l’attrice nei music-hall, e una volta per un calo di voce dovette farsi sostituire sulla scena da suo figlio Charlie, che aveva neanche cinque anni. Lui entrò in scena e imitò perfettamente la voce di sua madre. Fu un trionfo. Fu così che a nove anni entrò in una compagnia teatrale di bambini prodigio e con loro si esibì in tanti posti riuscendo ad osservare da vicino i clown e gli attori più grandi della sua epoca.» Si interruppe bruscamente come se stesse pensando a una formula matematica e poi continuò: «È così che si fa, bisogna rubare con gli occhi il mestiere, e poi certo ci vuole un pochino di talento. Nella vita ci vuole mestiere, talento ma soprattutto tanta fortuna. Come ti chiami ragazzino?».

«Io?», dissi.

«Sì.».

«Antonio. Antonio Carnemolla.».

«Antonio Carnemolla. Che vuoi fare da grande?».

«Boh. Perché?».

«Ci sarà qualcosa che ti piace fare, no?».

«Mi piace fare le imitazioni. Imito benissimo Andreotti, Craxi e Mike Bongiorno.».

Il mio Charlie scoppiò a ridere, si buttò per terra e iniziò a scalciare. La sua risata mi contagiò e iniziai a imitare Andreotti: «Ho formato un Governo troppo al centro, e si sa che al centro c’è troppo traffico di Comunisti pesanti, Socialisti con rimorchio, Repubblicani a scoppio… e l’ingorgo è inevitabile…».

«Vai Antonio, sei grande. Presidente cosa ne pensa di Craxi?».

«…Craxi è un atleta con qualche dimenticanza, tipo che quando fa la staffetta si dimentica di passare il testimone.».

«Eccellenza Craxi come risponde lei a questa frecciatina?»

«Faccio prima un salto al partito, e poi rispondo», appoggiai le mani sui fianchi e raddrizzai la schiena.

«Canta Craxi. Prova a dire tutto», dissero in coro i ragazzi.

«Pensate davvero che io abbia voglia di affacciarmi a un balcone e di mettermi le mani sui fianchi? E di gridare con voce stentorea “Italiani”?».

«Mamma mia come lo fai bene», disse il mio Charlie.

«Cosa?».

«Il sosia.».

«Di Mussolini?».

«No. Di Craxi.».

«Colpo di scena, amici ascoltatori. Registriamo la puntata ragazzi. Fate partire la siglaaa… Cari amici telespettatori. Allegria.».

Passavo da una imitazione a un'altra con una tale facilità che pensai per un attimo che forse quella sarebbe stata la mia strada. I ragazzi ridevano, ma io recitavo con serietà.

 

I girovaghi restarono a Marina di Ragusa per un’intera settimana, e io li seguivo tutti i giorni, e qualche notte mi fermavo lì da loro. A mamma e papà dicevo che dormivo da nonno, così non mi avrebbero sgridato.

Ne imparai di cose. Dal mio Charlie imparai la pantomima, dai giocolieri imparai a far girare due palline che in futuro sarebbero diventate tre, e poi una pallina, un sigaro e un cappello. Il mangiafuoco lo osservavo, ma non avevo il coraggio di imitarlo.

L’ultima sera di permanenza di quella compagnia di artisti a Marina di Ragusa, il mio Charlie mi disse che se volevo potevo esibirmi con loro, e il coraggio non mi mancò. Gli chiesi se potevo usare uno dei suoi attrezzi, e lui disse di sì.

Scelsi il diablo.

Il diablo è un attrezzo a forma di clessidra orizzontale, di origine cinese. Si appoggia su un cordino nel punto centrale, il cordino è legato all’estremità di due bacchette.

Quella sera c’era tutto il paese ad assistere allo spettacolo. Nessuno si sarebbe immaginato che Antonio, figlio di Guglielmo e nipote di Carmelo, si sarebbe esibito.

Osservai le loro facce, era chiaro che mi guardavano con sdegno ma non mi importava. Trovai la concentrazione e iniziai a roteare il diablo, forte e più forte e sempre più forte, fino a quando decisi di aprire le braccia. In quell’istante con la coda dell’occhio vidi mio padre che mi stava guardando. Spalancai le braccia. Il diablo prese il volo e andò a finire sul balcone del sindaco.

Miii… ci scassai i vetri, pensai.

Ci fu una risata generale e io con nonchalance iniziai a ballare il tip tap e mi ricordai della canzone di mamma, che ci cantava la mattina, intonandola a squarciagola: «[…]È primavera/Canta il fringuello/Ogni vitello/Scodinzola d’amor!/È primavera/Ogni Balena/Sospira e pena/Scodinzola d’amor!/Qual è l’incanto?/Del quale io canto/Che ci fa sospirar?/Che ogni sera /Di primavera/Ci fa prudere il cuor?/Oh, è amor…/…amor, amor, amor…/…amor, amor, amor. (poi feci una pausa e urlai) Buonasera a tutti signori e signore. Benvenuti a questa ultima serata degli artisti di strada. Guardate signori, questi sono artisti un po’ strampalati, ma con un pizzico di follia, che regalano a voi un po’ di umanità. Questo è un intreccio di sogni e realtà. Tutto è magia.».

Partì un applauso e io mi sentii galvanizzato. Continuai a incitare la folla e la musica mi inebriò. Rubai le torce infiammabili al mangiafuoco e le accesi. Avevo perso la testa, non le sapevo usare, ma volevo stare al centro di quella attenzione.

Mi sentivo vivo.

Per fortuna mi venne in aiuto il vero mangiafuoco, e insieme portammo a termine il numero. Io alla fine gli feci da assistente, e ripetevo a memoria le battute che avevo sentito in tutta quella settimana.

«Signori e signore, il pubblico ora grida “ole’”. Ora il mangiafuoco lancerà in aria le torce infuocate. Uno, due, tre, insieme “Ole’”.».

«Ole’», gridammo tutti in coro, e giù l’applauso.

Quel frastuono di mani mi caricava e ricominciai a cantare: «Ci basta una capanna. Per vivere e dormir. Ci basta un po’ di terra, per viver e morir. Chiediamo un paio di scarpe, qualcosa da mangiar. A queste condizioni crederemo nel doman’.».

 

Potevano essere le tre di notte, quando quel Circo smontò e partì.

Dopo di loro: il nulla.

 

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